IL RUOLO
DELLO PSICOLOGO NELLA SCUOLA
Ri… PARLIAMONE (a cura di Anna Guarracino)
Per analizzare e interpretare correttamente le dinamiche psicologiche individuali dei bambini che presentano “handicap” si richiede una profonda conoscenza delle leggi obiettive del comportamento ossia delle linee evolutive che "rappresentano il cammino che porta un individuo dallo stato di immaturità e di dipendenza infantile alla graduale padronanza del proprio corpo e delle sue funzioni, all'adattamento alla realtà, alle relazioni oggettuali, alla più ampia comunicazione sociale, al progressivo costituirsi dell'organizzazione interna"[1].
Generalmente tale conoscenza è patrimonio esclusivo dello psicologo dell'età evolutiva che per questo motivo è in grado di fornire una corretta chiave di lettura delle manifestazioni comportamentali, rivelatrici del vero essere del soggetto. Da qui nasce la giustificata richiesta del suo intervento a scuola.
Ma qual è il suo vero ruolo nella scuola? In che misura la sua presenza può giovare gli altri operatori? Quali sono le sue reali competenze? Questi sono solo alcuni dei tanti interrogativi ai quali è difficile dare una risposta univoca dato che, ancora oggi, la figura dello psicologo è avvolta in un alone di silenziosa ambiguità. Eppure, è inequivocabilmente chiara la sua indispensabilità nel tessuto scolastico, dove egli dovrebbe potere affiancare costantemente gli insegnanti nella ricerca dei vari modi e dei diversi mezzi per comprendere taluni comportamenti "anomali" dei bambini "diversi" e risolvere i tanti problemi psicologici legati alla loro presenza in classe e nello stesso tempo potrebbe fungere anche da "filtro" nei complessi rapporti tra scuola e famiglia "patologica", svelando tutti quei meccanismi emotivi (e non), che impediscono, di fatto, le relazioni collaborative e la compartecipazione negli interventi di recupero.
D'altronde non bisogna dimenticare che spesso è proprio la scuola dell'infanzia a rendersi conto, per prima, della gravità dell'handicap del piccolo alunno, trascurato in famiglia per ovvi motivi, e ciò giustifica ancora di più l'intervento dello psicologo che, in questi casi, con discrezione, deve aiutare gli ignari genitori a prendere coscienza del problema e ad accettare i limiti e i bisogni del proprio figlio. Egli, inoltre, potrebbe far luce sulle dinamiche relazionali tra il bambino e l'ambiente, sia quello familiare sia quello scolastico, per capire se tutti i disturbi dell'handicappato (leggi: soggetto in difficoltà, persona diversamente abile o con disabilità) debbano essere collegati alla natura del suo difetto oppure alle circostanze negative che hanno eventualmente impedito l'integrazione della sua persona. In altre parole, lo psicologo deve essere in grado di capire e analizzare tutte le implicazioni psicologiche derivanti dalla diversità del bambino nella famiglia e nella scuola. Egli sa bene che "...dietro una facciata di armonia convenzionale e le affermazioni che in famiglia non esistono conflitti molto spesso si scoprono difficoltà di rapporti... e ... dietro l'apparenza di una madre devota viene sovente alla luce una persona sola, insicura, delusa nelle sue aspirazioni, nei suoi bisogni, vittima del ruolo di "madre modello" che la opprime..."[2] e sa anche che situazioni simili di conflitti mascherati si verificano pure negli operatori scolastici, incapaci da soli di fronteggiare il difficile problema dell'integrazione dell'handicappato e perciò deve necessariamente volgere la sua attenzione non solo al bambino, oggetto di diagnosi, ma anche a coloro che gli vivono accanto e non riescono a comprenderlo. "Sta allo psicologo, in questa fase diagnostica, registrare le richieste espresse e latenti e tenerle presenti per la valutazione terminale e le proposte di intervento"[3]. Però, lo psicologo non deve trarre da queste sue osservazioni giudizi tendenziosi o quantomeno preformati, ma, come ammonisce giustamente Giovanna Astaldi, deve essere anche capace di "rimodellare, nel confronto, i propri schemi concettuali, di saper comunicare le informazioni specifiche con parole ed immagini familiari a chi ascolta" poiché "la madre (e aggiungo: non solamente lei) ha il diritto di conoscere la natura dell'handicap del figlio, l'iter delle indagini, le terapie che deve seguire e i probabili risultati"[4] mentre le insegnanti, da parte loro, devono sapere in quali livelli evolutivi il "diverso" è ascrivibile vale a dire quali tappe cognitive, mentali, socio-affettive e psicomotorie il soggetto ha raggiunto per potersi orientare con certezza nei programmi di recupero-sviluppo.
Purtroppo spesso questo non si verifica infatti "... non è solo un problema cognitivo se informazioni e suggerimenti sembrano a volte smarrirsi nei rivoli dell'incomprensione, della diffidenza e del rifiuto..." [5].
Quindi, lo psicologo, evitando sopraffazioni o sovrapposizioni di competenze o, peggio ancora, posizioni dogmatiche e deterministe, deve cercare in ogni modo di conquistarsi la fiducia di tutti coloro che sono coinvolti nel "problema" per poter lavorare serenamente sulle basi di un rapporto empatico e simpatetico, improntato più sulla componente umana che non su quella tecnico-scientifica, distaccante e alienante, propria della cultura medica specialista, imperante oggi.
Dunque, è "solo attraverso una dettagliata analisi di tutti quei fattori, personali e familiari, che entrano nella causalità comportamentale, che diventa possibile formulare una valutazione diagnostica e prognostica accettabile"[6]. Lo psicologo Giancotti specifica ulteriormente le modalità di questa importante indagine sostenendo che "[...] nello studiare un individuo, che vive in un determinato ambiente e soffre di una determinata inabilità ad affermarsi nella sua individualità, non soltanto lo sviluppo psicologico e la sua fenomenologia personale meritano la nostra attenzione, ma dobbiamo anche sforzarci di capire i rapporti di interdipendenza a volte immutabili che lo legano alla realtà delle sue acquisizioni concrete... il rapporto uomo-uomini-mondo delle cose deve essere oggetto di analitica osservazione, perché solo attraverso la comprensione dei suoi dinamismi ne possiamo riconoscere i meriti e le deficienze e suggerirne i rimedi[...]"[7].
È indubbio che la tempestività e la correttezza diagnostica, seguita da un valido programma psicologico di recupero rivolto alla globalità della persona, possa da un lato contribuire a risolvere i ritardi o i disturbi della personalità in sviluppo e dall'altro evitare le conseguenti ripercussioni negative sugli altri. Questo compito però è veramente arduo; richiede disponibilità e professionalità da parte dello psicologo e non può essere svolto all'insegna della fretta, dell'occasionalità e della discontinuità come succede attualmente nelle scuole dove lo psicologo, inserito nell'equipe psicopedagogica (leggi: Unità Multidisciplinare A.S.L.), opera sporadicamente in tempi limitati a tal punto che, benché sia uno specialista, non può assolutamente rendersi conto delle reali difficoltà esistenti nella realtà scolastica e non può pertanto attuare efficaci interventi "ad hoc", tempestivi e opportuni. Pur essendo validissimo il principio dell'interdisciplinità operativa, certamente allo psicologo dovrebbe essere concesso la possibilità di staccarsi dall'equipe per poter effettuare un servizio permanente all'interno della scuola. Contrariamente alle disposizioni vigenti, egli dovrebbe, a mio avviso, far parte dell'organico effettivo ed operare continuamente e sistematicamente, accanto al corpo dei docenti e dei non docenti, per avviare un nuovo corso della scuola più rispondente ai concreti bisogni umani.
Solo così egli potrà effettivamente promuovere dei radicali cambiamenti nell'ambito delle strutture scolastiche e familiari e, di conseguenza, delle concrete azioni modificatrici sulla struttura psicologica del bambino handicappato, in corso di sviluppo, nella direzione suggerita da Luigi Cancrini.[8]
2. La psicodiagnosi
Non a caso ho spesso menzionato la famiglia e la scuola considerate nel loro insieme contestuale e ho trascurato di parlare singolarmente del bambino handicappato, ma, in verità, questo è in linea con l'odierna tendenza dei nuovi indirizzi psicologici.
Piaget, Lewin, Giancotti, Cancrini, Oliviero Ferraris, Senatore Pilleri, Cannao, Mantovani, solo per citare alcuni nomi, hanno dimostrato, sulla scia della psicologia della Gestalt[9], l'impossibilità di capire il soggetto psichicamente disturbato al di fuori del contesto relazionale in cui vive. Sul piano operativo questo significa "...superare i limiti di un intervento tutto centrato sul paziente che in definitiva conferma la sua diversità...[10]", senza tuttavia trascurare del tutto la sua storia personale che riveste una fondamentale importanza nel momento diagnostico, vale a dire, quando lo psicologo deve accertare, dopo la segnalazione effettuata dagli operatori scolastici (o da altri), l'entità del disturbo psicologico, tenendo presente chiaramente anche il punto di vista degli altri specialisti. Tale diagnosi è funzionale sempre che non si limiti a "raccogliere elementi, sintomi e segni, per iscrivere il quadro che il bambino presenta in una determinata categoria nosografica, compito più prettamente medico,..." ma tenti ad "...illustrare gli aspetti del funzionamento mentale e le reciproche interconnessioni, i modi di adattamento interno e alla realtà esterna, la difficoltà o i fallimenti di tale adattamento, e, con soggetti appunto in età evolutiva, come sta procedendo lo sviluppo psicologico in rapporto all'età, quanto è internamente e quanto è ancora in funzione degli apporti esterni."[11]
In questo modo essa servirà davvero a conoscere il "diverso" e a comprenderlo; a delinearne un esatto quadro evolutivo capace di evidenziare il suo reale sviluppo eterocronico ovvero le varie "disomogeneità e discrepanze tra i gradienti di crescita delle varie linee prese in considerazione. I livelli normali o più evoluti accanto a livelli più bassi, oppure indugi, se non arresti..."[12] nonché a stabilire "quanto del quadro del bambino può essere attribuito:
a) alla fase evolutiva che il bambino sta attraversando; b) ad una situazione reattiva (cioè di risposta ad elementi di disturbo presenti nell'ambiente esterno); c) alla presenza di conflitti già interiorizzati, con regressioni o arresti di sviluppo".[13]
Naturalmente si perviene a questi risultati solo dopo lunghe indagini. Lo schema riassuntivo, sottostante, tratto dalla ricerca su "metodi e tecniche della psicologia" per una "diagnosi psicologica in età evolutiva" di Maria Rosa De Zordo e di Adriana
Lis, mostra l'iter operativo della pratica diagnostica:
SCHEMA RIASSUNTIVO
DEL MATERIALE DIAGNOSTICO[14]
__________________
Segnalazione:
- chi segnala il bambino e perché (genitori insegnanti, pediatria...);
- problema evidenziato da chi segnala, dai genitori, dal bambino stesso, dall'esaminatore psicologico (cioè lo psicologo stesso può evidenziare all'esame psicologico un problema p. es. di tipo diagnostico, cui dare una risposta attraverso l'analisi del materiale).
- atteggiamento dei genitori di fronte al bambino;
- descrizione del bambino;
- atteggiamento e aspettative dall'incontro con lo psicologo;
- descrizione dei genitori ed eventuali informazioni sulle loro famiglie di provenienza;
- situazione familiare;
- storia anamnestica del bambino.
Colloquio col bambino:
- descrizione del bambino;
- atteggiamento del bambino nei confronti della segnalazione e della consultazione psicologica;
- autovalutazione, stima di sé, abitudini, interessi, giochi, impegni e attività scolastica;
- atteggiamento e sentimenti verso i genitori, i fratelli, i familiari, gli insegnanti, i coetanei;
- atteggiamento o interessi verso animali, cose...;
- fantasie, paure, sogni...
- prove grafiche, test cognitivi e proiettivi.
- colloqui o descrizione di sedute di gioco.
È interessante notare come in questo schema si dia una giusta importanza anche ai mezzi che favoriscono una precisa conoscenza dei livelli maturativi del soggetto come ad esempio il disegno, i vari test psicometrici e il gioco o le attività libere, utili quando i soggetti, carenti nel linguaggio verbale, non possono comunicare a viva voce le proprie ansie e le proprie paure.
Talvolta, poi, questi "bambini" non riescono neppure ad esternare graficamente il loro complesso mondo interiore e allora può essere di aiuto allo psicologo l'osservazione del loro comportamento nel gioco spontaneo dove essi si manifestano in tutta la loro nudità sentimentale, emozionale ed espressiva.
Infatti, il bambino, nelle attività ludiche, liberandosi da ogni tipo di costrizione, mostra i suoi reali rapporti con la realtà esterna, la qualità delle sue relazioni oggettuali e le sue concrete capacità adattive, attraverso la sua identificazione simbolica con personaggi e ruoli a lui noti oppure attraverso la sua partecipazione o finanche attraverso il suo rifiuto o ritiro dal gioco stesso, come nel caso dei soggetti affetti da "autismo infantile"[15] che tendono a vivere in un loro mondo, privo di calore affettivo e chiuso al rapporto con "l'altro", diverso da "sé". Egli, così riproduce quelle esperienze personali di vita che magari hanno turbato il suo delicato e fragile evolversi psichico causando arresti o ritardi. Anche Giancotti sostiene che: "gli atti che il bambino compie durante il gioco ed il modo con cui entra in rapporto con i giocattoli servono per esprimere determinati dinamismi conflittuali, mentre a loro volta i giocattoli coinvolti assumono uno specifico valore simbolico".
Tali mezzi o strumenti conoscitivi si prestano pertanto ad una analisi pluri-dimensionale che può contribuire a determinare una corretta e obiettiva stesura della diagnosi psicologica.
3. Una modalità di intervento: Lo psicologo "regista" del cambiamento.
Una volta che sono state evidenziate "le funzioni o aree di funzionamento psichico che risultano e restano adattive e dove invece incide il disadattamento psichico" è possibile intervenire con un progetto di recupero psicologico basato non solo su interventi diretti sul bambino ma anche indiretti, orientati sull’ azione o, come suggerisce Cancrini, sull'utilizzazione delle risorse esistenti all'interno dei sistemi complessi scuola/famiglia e aventi come scopo principale l'obiettivo di rimuovere o perlomeno di alleviare, i disturbi ambientali ovvero le cause estrinseche di cui parla Canevaro.[16]
Quest'ultima modalità di intervento presume la nascita entro contesti strutturali ben determinati di nuove regole comportamentali capaci di promuovere cambiamento nel "modus vivendi" dei membri di appartenenza. Lo psicologo "si contrapporrà a certe abitudini familiari (o scolastiche) criticandole apertamente o proibendole, o suggerendole di nuove, o consigliando di osservare una sua prescrizione... I cambiamenti che avvengono durante la terapia non riguardano tanto la comprensione nuova dei meccanismi o delle dinamiche patologiche, quanto piuttosto la sperimentazione concreta di nuovi modi di interagire. Non si tratta, insomma, di una terapia, per così dire, cognitiva, quanto piuttosto esperienziale"[17].
Lo psicologo, in queste situazioni, assume un ruolo simile a quello del regista: "deve cioè far vivere alla famiglia (e alla scuola) situazioni e comunicazioni diverse da quelle che essa è abituata ad avere, e in cui si trova drammaticamente ingabbiata.
Per far ciò egli deve essere uno strumento nelle mani della famiglia (e della scuola), cogliendo al volo i momenti in cui essa esprime più collaborazione, e potenziandoli..." egli deve cioè "...indurre dal di dentro delle trasformazioni..." per garantire l'evoluzione "...verso un diverso e più sano equilibrio..."[18]
Questo indirizzo strutturale (o anche sistemico) più che sugli strumenti tradizionali verte sull'insieme delle regole dei sistemi relazionali (famiglia-scuola). Tra queste regole, rivestono un ruolo fondamentale quelle "comunicative tra i vari membri del sistema su cui il terapeuta interviene tramite ridefinizioni e prescrizioni"[19]. Secondo Cancrini, questi particolari tipi di interventi, agendo non sul bambino bensì, a seconda della esigenza, sui genitori, sugli insegnanti, sui compagni, sull'equipe ecc., evitano la "designazione" del "diverso" e correggono, in breve tempo, i famigerati "circoli viziosi" che scaturiscono dalla designazione stessa.
Ma, per capire come questo avviene, vale la pena di addentrarci oltre nel discorso di questo Autore che, come ho già detto, ripone la massima attenzione sui processi comunicativi tra due o più persone "in grado di influenzarsi reciprocamente attraverso il loro comportamento"[20]. Egli ritiene che l'informazione nel passaggio da un individuo ad un altro percorra una strada simbolica caratterizzata da cinque tempi. A volte succede che il sopraggiungere di un "rumore sul canale" comporta la mancata "decodificazione" e "interpretazione" del messaggio.[21]
È proprio questo "blocco della comunicazione" nei sistemi interpersonali che richiede poi l'intervento psicologico che deve attuarsi all'interno del sistema stesso e, siccome Cancrini si riferisce appunto al sistema scolastico, lo psicologo deve conoscere le leggi che regolano il funzionamento di questo sistema.
Tali leggi sono quattro riassumibili grosso modo in: 1) propagarsi del disturbo all'interno del sistema; 2 e 3) modalità abituali di reazione e di adattamento al disturbo che finisce per bloccare il sistema; 4) possibilità di prevedere e di prevenire l'insorgenza e la stabilizzazione del disturbo e delle sue conseguenze. Una volta che si è evidenziato il disturbo "il compito specifico dell'operatore psicologico chiamato a prevenire o a curare l'istaurarsi del disturbo" è quello di "suscitare appelli", capaci di interrompere il deviante corso del flusso delle informazioni.[22] Tali interventi sono tanto più utili quanto più sono precoci infatti lo stesso Cancrini afferma che "occorre mettere in discussione presto le difficoltà che insorgono nella classe: un atteggiamento basato sul tentativo di mantenere aperti i confini del gruppo, discutendo tali difficoltà con i colleghi, con le famiglie, con i bambini e con gli operatori sociali e la tendenza ad accettare le difficoltà del sistema come segno di qualche cosa che non funziona fra le persone invece che nelle persone possono essere molto importanti, oltre che dal punto di vista pedagogico, anche per prevenire un futuro disturbo "psichiatrico" del bambino."[23]
È interessante notare come questo Autore, d'accordo con Laura Fruggeri,[24] parli del sistema scolastico come "un meccanismo caratterizzato dal mutamento e dalla discontinuità prima e più che dalla staticità di un equilibrio" e sempre in ricerca di una nuova "omeostasi". Ciò sottolinea l'importanza degli interventi che comunque determinano cambiamenti, nuovi sviluppi, indipendentemente dai risultati, positivi o negativi, raggiunti"... Non esistono pertanto interventi inefficaci (se si indicano con questo termine interventi che non producono effetti); esistono solo interventi che indirizzano, in una direzione o in un'altra, l'evoluzione di quel sistema: perché ogni punto del sistema è unico e originale..."[25]. La bravura dello psicologo consiste pertanto non già "nel curare un caso" (intervento individuale) ma nel tentare di "valorizzare delle occasioni" e di "utilizzare le risorse disponibili" cercando di promuovere dei cambiamenti mediante comunicazioni efficaci (intervento sistemico). Egli così assurge alla funzione di MEDIATORE più che a quella tradizionale di terapeuta. Mediatore che tenta "di modificare una situazione che non si modificherebbe da sola" attraverso interventi a) preventivi; b) terapeutici; c) di psicoterapia strutturata.
Sembra confermato da diversi studiosi, oltre che da Cancrini, che questi tipi di interventi conseguano "risultati molto più rapidi e sicuri di quelli basati sul tentativo di prendere il bambino in psicoterapia o di aiutarlo trasportandolo in un ambiente ritenuto più favorevole" poiché essi si soffermano ad analizzare "fatti altrimenti sottovalutati (il vissuto della madre e/o dell'insegnante, il significato interpersonale delle comunicazioni sul sintomo e di quelle veicolate dal sintomo)..."[26].
Non si può non rimanere affascinati dalla prospettiva psicologica di questo Autore che ha il pregio di riscattare il "diverso" e quindi l'handicappato da una designazione sintomatica che certamente egli non merita.
Note:
[1]Maria Rosa De Zordo, Adriana Lis, “Diagnosi psicologica in età evolutiva”. In Psicologia Contemporanea. 1986, 60-63.
[2] Giovanna Astaldi, “Il bambino handicappato, la madre e lo psicologo”. In vita dell’infanzia. 1990, 35-36.
[3]Maria Rosa De Zordo, Adriana Lis, “La diagnosi psicologica in età evolutiva”. Psicologia Contemporanea. 1985, 59-61.
[4] Giovanna Astaldi, op. cit.
[5] Idem
[6] Antonio Giancotti, “I disturbi psicologici del bambino” Armando Armando Editore. Roma, 1971.
[7] Antonio Giancotti, op. cit. pp. 26-27
[8] In Luigi Cancrini, Elvira Guida, “Intervento psicologico nella scuola”. La Nuova Italia Scientifica, Roma 1986.
[9] Con questo termine si indica il “Sistema teorico che sottolinea le proprietà della struttura, dell’organizzazione, del campo e degli insiemi. Permette una forma di introspezione conosciuta come fenomenologia… ossia un’impostazione basata su resoconti semplici e immediati dell’esperienza cosciente, quali si possono ottenere da un bambino, a differenza di quanto avviene nell’introspezione esercitata e controllata; studio dell’esperienza non analizzata”. Dal glossario di Psicologia (corso introduttivo) di E. R. Hilgard, R. C. Atkinson, R. L. Atkinson (1953, New York). Giunti Barbera. 1980, Firenze.
[10] Maria Ponsi, “La terapia familiare” (Come esempio di approccio relazionale al disturbo psichico). In Psicologia Contemporanea. 1975, 29-35.
[11] Maria Rosa De Zordo, Adriana Lis, “Diagnosi psicologica in età evolutiva”. Psicologia Contemporanea. 1985, 59-62.
[12] Maria Rosa De Zordo, Adriana Lis, op. cit.
[13] Maria Rosa De Zordo, Adriana Lis, “La diagnosi psicologica in età evolutiva”. Psicologia Contemporanea. 1985, 59-62
[14] Tratto da: M. R. De Zordo, “La diagnosi psicologica in età evolutiva”. Psicologia Contemporanea. 1985, pp. 61
[15] Si tratta di una sindrome complessa, isolata e definita tale dallo studioso Kanner. Ma tale definizione è stata oggetto di polemiche cliniche ancora oggi vive in quanto non si conosce bene la vera eziologia di questa patologia che impedisce la comunicazione tra sé e gli altri.
[16] “Handicap e scuola. Manuale per l’integrazione scolastica, N.I.S., La Nuova Italia Scientifica, Firenze 1981.
[17] Maria Ponsi, “La terapia familiare”, come esempio di approccio relazionale al disturbo psichico. Psicologia Contemporanea. 1975, pp. 29-34.
[18] Maria Ponsi, op. cit.
[19] Idem.
[20] Luigi Cancrini, Elvira Guida, “L’intervento psicologico nella scuola” – Utilizzazione delle risorse di un sistema complesso. La Nuova Italia Scientifica. Roma, 1986.
[21] Idem.
[22] Idem.
[23] Idem.
[24] L. Fruggeri, Modelli di interazione e processi di cambiamento, cap. 4. Cit. in “Intervento psicologico nella scuola” di L. Cancrini (op. cit.).
[25] Luigi Cancrini, Elvira Guida, op. cit.
[26] Idem.
[15] Si tratta di una sindrome complessa, isolata e definita tale dallo studioso Kanner. Ma tale definizione è stata oggetto di polemiche cliniche ancora oggi vive in quanto non si conosce bene la vera eziologia di questa patologia che impedisce la comunicazione tra sé e gli altri.
[16] “Handicap e scuola. Manuale per l’integrazione scolastica, N.I.S., La Nuova Italia Scientifica, Firenze 1981.
[17] Maria Ponsi, “La terapia familiare”, come esempio di approccio relazionale al disturbo psichico. Psicologia Contemporanea. 1975, pp. 29-34.
[18] Maria Ponsi, op. cit.
[19] Idem.
[20] Luigi Cancrini, Elvira Guida, “L’intervento psicologico nella scuola” – Utilizzazione delle risorse di un sistema complesso. La Nuova Italia Scientifica. Roma, 1986.
[21] Idem.
[22] Idem.
[23] Idem.
[24] L. Fruggeri, Modelli di interazione e processi di cambiamento, cap. 4. Cit. in “Intervento psicologico nella scuola” di L. Cancrini (op. cit.).
[25] Luigi Cancrini, Elvira Guida, op. cit.
[26] Idem.
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